AREA
QUADRI
RISOLUZIONE IN COMMISSIONE 7/00787 del 28/09/2015
Si trasmette, allegata, la risoluzione, in commissione per l’istituzione dell’Area quadri presentata dall’on.le Rizzetto Walter il 28/9/2015 per conto della Dirstat.
Questa iniziativa si correla ad una intensissima attività che stiamo portando avanti a seguito della delegittimazione dei dirigenti delle agenzie fiscali:
“l'attribuzione fiduciaria di incarichi ad personam in favore di soggetti non titolati, come ha dimostrato la recente sentenza, n. 37 del 2015, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi circa 1200 dirigenti delle agenzie fiscali”
Istituzione
vice dirigenza settore pubblico
ATTO CAMERA
RISOLUZIONE IN COMMISSIONE 7/00787
Dati di presentazione dell'atto
Legislatura: 17
Seduta di annuncio: 491 del 28/09/2015
Firmatari
Primo
firmatario: RIZZETTO WALTER
Gruppo:
MISTO-ALTERNATIVA LIBERA
Data
firma: 28/09/2015
Commissione assegnataria
Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO)
Stato iter:
IN CORSO
Atto
Camera
Risoluzione
in commissione 7-00787presentato da
RIZZETTO Waltertesto di
Lunedì 28 settembre 2015, seduta n. 491
La
Commissione XI,
premesso
che:
l'Unione
europea, con atti di indirizzo, nel 2001 ha censurato il
comportamento dell'amministrazione italiana, in quanto l'unica in
Europa a non aver previsto nell'ordinamento pubblico l'area dei
quadri, così come ampiamente disciplinato nell'impiego
privato. Al riguardo, si ritiene necessaria l'introduzione nella
pubblica amministrazione di una figura analoga a quella ben nota dei
quadri nel lavoro privato, a cui siano riconosciute elevate
responsabilità funzionali ed elevata preparazione
professionale;
la
mancanza di tale figura ha determinato la proliferazione
dell'affidamento fiduciario di incarichi e funzioni dirigenziali,
generando un duplice ordine di storture:
a)
la corresponsione di indennità di funzioni dirigenziali
costituenti aggravio per le casse dell'erario;
b)
l'attribuzione fiduciaria di incarichi ad personam
in favore di soggetti non titolati, come ha dimostrato la recente
sentenza, n. 37 del 2015, con la quale la Corte costituzionale ha
dichiarato illegittimi circa 1200 dirigenti delle agenzie fiscali;
a
tale riprovevole prassi, è possibile porre rimedio proprio
attraverso l'istituzione di un'area contrattuale del tutto omologa a
quella dei cosiddetti quadri che, come è noto, costituiscono
il cuscinetto tra la classe impiegatizia e quella dirigenziale
nell'ambito del lavoro privato;
come
predetto, l'assenza di tale figura era stata già censurata dal
Parlamento europeo, a seguito dell'audizione, a Bruxelles, dei
vertici della Dirstat, e ciò aveva condotto l'Italia ad
adottate una norma, rimasta poi inattuata (articolo 17-bis
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), per l'introduzione
dei vicedirigenti, figura rientrante nell'area-quadri. Sul punto, nel
2012, il Tar impose al Governo pro
tempore
di istituire la vicedirigenza, decisione ribadita anche dal Consiglio
di Stato, che nominò persino un commissario, ad
acta per
ottemperare a questo obbligo. Tuttavia, nel medesimo anno, il Governo
Monti, con decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, ha abrogato la
vicedirigenza determinandomi ad avviso del firmatario del presente
atto un evidente conflitto istituzionale con i magistrati
amministrativi. La questione attualmente pende anch'essa davanti alla
Corte costituzionale;
tanto
premesso, prima della decisione dei giudici costituzionali, si
ritiene opportuno che sia il Governo a reintrodurre la figura dei
quadri all'interno dell'ordinamento pubblico,
impegna il Governo
ad
adottare le iniziative di competenza per definire le opportune
disposizioni integrative del decreto legislativo, 30 marzo 2001, n.
165, al fine di introdurre l'area quadri nell'ordinamento del
pubblico impiego e la conseguente figura giuridica.
(7-00787)
«Rizzetto».
Classificazione EUROVOC:
EUROVOC (Classificazione automatica provvisoria, in attesa di revisione):
relazioni diplomatiche
Mobilità nella P.A.
Province, con la mobilità tagli agli stipendi (8 settembre 2015)
I confini per le garanzie per gli stipendi dei dipendenti pubblici che cambieranno comparto si fanno più precisi, ma non arriva la tutela integrale della busta paga “originaria” chiesta dai sindacati.
Dopo la registrazione da parte della Corte dei conti, la Funzione pubblica ha diffuso il testo definitivo del decreto con le «tabelle di equiparazione» per la mobilità fra i comparti del pubblico impiego, indispensabile per regolare i passaggi da un settore all'altro della Pa e quindi per avviare un capitolo centrale della riforma delle Province: quello che per ricollocare 7-8 mila dipendenti «in soprannumero» prevede di spostarli in aree disciplinate da contratti diversi da quello di Regioni ed enti locali (a questi ultimi dovrebbero andare invece circa 10 mila persone, in particolare chi lavora nella polizia provinciale e nei centri per l'impiego.
La questione riguarda “solo” la mobilità «non volontaria», che rappresenta però il grosso degli spostamenti in programma nella Pa proprio per l'esigenza di alleggerire gli organici delle Province; per quella volontaria, che ogni anno riguarda una manciata di dipendenti, non c'è discussione, nel senso che chi chiede di spostarsi accetta il trattamento della Pa di destinazione.
Il punto più delicato, che in occasione del primo confronto in primavera aveva acceso le accuse sindacali sulla volontà del Governo di introdurre «tagli d'ufficio agli stipendi», si incontra all'articolo 3 del provvedimento.
Rispetto alle bozze iniziali, il testo spende qualche parola in più sulle garanzie stipendiali per la mobilità, ma non modifica la sostanza del meccanismo: il dipendente che si sposta in un comparto pubblico diverso da quello di appartenenza, e che nel suo posto di lavoro ha uno stipendio superiore a quello previsto nella nuova destinazione, manterrà il trattamento fondamentale e accessorio «limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa».
Un sistema di questo genere si spiega anche con l'impossibilità di replicare voci stipendiali che nella nuova organizzazione perderebbero di senso.
Sarebbe difficile, per esempio, giustificare un'indennità di «posizione organizzativa» o per «specifiche responsabilità» a chi nell'ente di provenienza svolgeva un ruolo di direzione che nella nuova amministrazione non trova corrispondenza (il nuovo testo introduce un paracadute in più per le «progressioni di carriera legittimamente acquisite»). I nodi, però, non finiscono qui.
La garanzia per le voci fisse e continuative, spiega il decreto, si attiva «nei casi in cui sia individuata la relativa copertura finanziaria, ovvero a valere sulle facoltà assunzionali». Tradotto, significa che l'ente di destinazione dovrà finanziare con i propri fondi integrativi il trattamento accessorio da mantenere al nuovo dipendente: è importante la precisazione in base alla quale alla bisogna potranno servire gli spazi liberati dal turn over, che dopo l'ultima manovra sono in pratica riservati al riassorbimento degli esuberi delle Province, ma in più di un caso le amministrazioni di destinazione potrebbero dover redistribuire le stesse risorse di oggi su una platea accresciuta.
C'è poi un terzo aspetto caldo: anche nei casi in cui scattasse la tutela completa sullo stipendio attuale, le voci in più rispetto a quanto previsto per il nuovo inquadramento confluirebbero in un «assegno ad personam, riassorbibile con i successivi miglioramenti economici». La norma serve a evitare la corsa all'aumento strutturale della spesa negli enti che accolgono nuovo personale ma, visto che non si può certo prevedere una dinamica vivace per i prossimi rinnovi contrattuali pubblici, il meccanismo finirebbe per congelare a lungo le buste paga.
La questione fondamentale, che può produrre battaglie di carta bollata in tutti i casi di stipendi a rischio, nasce dal fatto che la riforma delle Province prevedeva un meccanismo diverso: in caso di mobilità, spiega infatti il comma 96 della legge Delrio, il dipendente in uscita delle Province si sarebbe dovuto portare dietro «le corrispondenti risorse» necessarie a garantirgli «il trattamento economico fondamentale e accessorio in godimento all'atto del trasferimento». Questo “zainetto”, inserito a suo tempo proprio per ottenere l'ok sindacale alla riforma, è stato “superato” dagli eventi anche perché, come spiegato qualche mese fa in una nota diffusa dalla Funzione pubblica, anche alla luce dei tagli miliardari chiesti alle Province dalla manovra «il trasferimento di personale non comporta trasferimento di risorse finanziarie»; e la stessa impostazione si incontra anche nelle bozze del decreto sui criteri generali della mobilità (anticipato sul Sole 24 Ore del 15 luglio), che riguarda anche chi si sposterà senza cambiare contratto pubblico. Se però la legge e i decreti ministeriali parlano due lingue diverse, il conflitto è dietro l'angolo soprattutto quando si parla di stipendi.
I confini per le garanzie per gli stipendi dei dipendenti pubblici che cambieranno comparto si fanno più precisi, ma non arriva la tutela integrale della busta paga “originaria” chiesta dai sindacati.
Dopo la registrazione da parte della Corte dei conti, la Funzione pubblica ha diffuso il testo definitivo del decreto con le «tabelle di equiparazione» per la mobilità fra i comparti del pubblico impiego, indispensabile per regolare i passaggi da un settore all'altro della Pa e quindi per avviare un capitolo centrale della riforma delle Province: quello che per ricollocare 7-8 mila dipendenti «in soprannumero» prevede di spostarli in aree disciplinate da contratti diversi da quello di Regioni ed enti locali (a questi ultimi dovrebbero andare invece circa 10 mila persone, in particolare chi lavora nella polizia provinciale e nei centri per l'impiego). La questione riguarda “solo” la mobilità «non volontaria», che rappresenta però il grosso degli spostamenti in programma nella Pa proprio per l'esigenza di alleggerire gli organici delle Province; per quella volontaria, che ogni anno riguarda una manciata di dipendenti, non c'è discussione, nel senso che chi chiede di spostarsi accetta il trattamento della Pa di destinazione.
Il punto più delicato, che in occasione del primo confronto in primavera aveva acceso le accuse sindacali sulla volontà del Governo di introdurre «tagli d'ufficio agli stipendi», si incontra all'articolo 3 del provvedimento. Rispetto alle bozze iniziali, il testo spende qualche parola in più sulle garanzie stipendiali per la mobilità, ma non modifica la sostanza del meccanismo: il dipendente che si sposta in un comparto pubblico diverso da quello di appartenenza, e che nel suo posto di lavoro ha uno stipendio superiore a quello previsto nella nuova destinazione, manterrà il trattamento fondamentale e accessorio «limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa».
Un sistema di questo genere si spiega anche con l'impossibilità di replicare voci stipendiali che nella nuova organizzazione perderebbero di senso.
Sarebbe difficile, per esempio, giustificare un'indennità di «posizione organizzativa» o per «specifiche responsabilità» a chi nell'ente di provenienza svolgeva un ruolo di direzione che nella nuova amministrazione non trova corrispondenza (il nuovo testo introduce un paracadute in più per le «progressioni di carriera legittimamente acquisite»). I nodi, però, non finiscono qui.
La garanzia per le voci fisse e continuative, spiega il decreto, si attiva «nei casi in cui sia individuata la relativa copertura finanziaria, ovvero a valere sulle facoltà assunzionali». Tradotto, significa che l'ente di destinazione dovrà finanziare con i propri fondi integrativi il trattamento accessorio da mantenere al nuovo dipendente: è importante la precisazione in base alla quale alla bisogna potranno servire gli spazi liberati dal turn over, che dopo l'ultima manovra sono in pratica riservati al riassorbimento degli esuberi delle Province, ma in più di un caso le amministrazioni di destinazione potrebbero dover redistribuire le stesse risorse di oggi su una platea accresciuta.
C'è poi un terzo aspetto caldo: anche nei casi in cui scattasse la tutela completa sullo stipendio attuale, le voci in più rispetto a quanto previsto per il nuovo inquadramento confluirebbero in un «assegno ad personam, riassorbibile con i successivi miglioramenti economici».
La norma serve a evitare la corsa all'aumento strutturale della spesa negli enti che accolgono nuovo personale ma, visto che non si può certo prevedere una dinamica vivace per i prossimi rinnovi contrattuali pubblici, il meccanismo finirebbe per congelare a lungo le buste paga.
La questione fondamentale, che può produrre battaglie di carta bollata in tutti i casi di stipendi a rischio, nasce dal fatto che la riforma delle Province prevedeva un meccanismo diverso: in caso di mobilità, spiega infatti il comma 96 della legge Delrio, il dipendente in uscita delle Province si sarebbe dovuto portare dietro «le corrispondenti risorse» necessarie a garantirgli «il trattamento economico fondamentale e accessorio in godimento all'atto del trasferimento». Questo “zainetto”, inserito a suo tempo proprio per ottenere l'ok sindacale alla riforma, è stato “superato” dagli eventi anche perché, come spiegato qualche mese fa in una nota diffusa dalla Funzione pubblica, anche alla luce dei tagli miliardari chiesti alle Province dalla manovra «il trasferimento di personale non comporta trasferimento di risorse finanziarie»; e la stessa impostazione si incontra anche nelle bozze del decreto sui criteri generali della mobilità (anticipato sul Sole 24 Ore del 15 luglio), che riguarda anche chi si sposterà senza cambiare contratto pubblico. Se però la legge e i decreti ministeriali parlano due lingue diverse, il conflitto è dietro l'angolo soprattutto quando si parla di stipendi.
Tornano a pioggia i premi per i dirigenti
ROMA
– 18 novembre 2014
Per Matteo Renzi era una bandiera. Un po’ come il taglio delle ferie ai magistrati. Quella di legare i premi dei dirigenti pubblici al Pil avrebbe dovuto essere uno dei pilastri di tutta la riforma della pubblica amministrazione. Alla fine, invece, il premier si è dovuto arrendere. Dopo che la norma era stata stralciata dalla riforma Madìa, è scomparsa pure dalle regole interne alla Presidenzadel Consiglio, dove lo stesso Renzi, fino all’ultimo, aveva provato a introdurre il meccanismo per bloccare i premi a pioggia ai dirigenti. La loro performance di quest'anno verrà misurata con lo stesso sistema di valutazione che nel 2012 permise al 99 per cento di loro di portarsi a casa un ricco bonus. A confermarlo è una circolare del 30 ottobre firmata dal segretario generale di Palazzo Chigi, Mauro Bonaretti che elimina qualsiasi riferimento al Pil. I premi di rendimento valgono in media circa 30 mila euro. Quest'estate un decreto ad hoc aveva collegato la loro erogazione alla crescita del Prodotto interno, ma il provvedimento era stato smontato pezzo per pezzo dalla Corte dei Conti.
I NUOVI CRITERI
Come verranno allora valutati i dirigenti? Per l’80% del loro lavoro con gli stessi criteri dello scorso anno. Per il restante 20% c’è una novità. Basterà spedire entro la fine di dicembre una mail contenente una serie di proposte volte a semplificare i processi della Presidenza del Consiglio per assicurarsi in media 5 mila euro di bonus. L'obbiettivo di «Revisione e semplificazione dei processi» che è stato loro assegnato in via definitiva alla fine di ottobre può arrivare a valere fino al venti per cento dell’intera retribuzione di risultato. Il restante ottanta per cento dipenderà dalla valutazione del lavoro ordinario e istituzionale svolto dal dirigente che, come detto, verrà misurato con il sistema scampato alla rottamazione.
La retromarcia del governo sui premi di rendimento rappresenta una marcia indietro dolorosa per il governo che contava molto su questa riforma al fine di riuscire a incrementare l’efficienza della pubblica amministrazione. Il decreto di questa estate non si limitava però a legare parte dei salari all’andamento del Prodotto interno lordo. Altri macro-indicatori nazionali venivano chiamati in causa, tra cui per esempio il clima di fiducia delle imprese e dei consumatori rilevato dall’Istat. Secondo i magistrati contabili gli indicatori scelti non apparivano idonei tuttavia a valutare in via diretta la performance della presidenza dei Consiglio dei ministri come amministrazione, «valendo gli stessi al più quali indici rilevatori di una performance del sistema Paese, dipendenti in buona parte da fattori esogeni all’amministrazione e non correlati a una diretta responsabilità dirigenziale». Contro il provvedimento della presidenza del Consiglio si sono schierati compatti fin dal principio i sindacati dei dirigenti, dall'Unadis al Dirstat. A proposito poi del clima di fiducia di imprese e consumatori la Corte ha sottolineato che tale indicatore «sconta di per sé un certo grado di indeterminatezza».
Sotto la lente dei magistrati è finito anche un altro indicatore sulla base del quale andava erogato il premio di rendimento, ovvero quello relativo ai consumi intermedi della pubblica amministrazione in relazione al Pil, dal momento che esso risulta influenzato dal concorso di tutte le pubbliche amministrazioni e non dipende quindi dal solo operato dei dirigenti di Palazzo Chigi.
Precariato dirigenziale
Roma, 5 maggio 2014 – Tra i tanti provvedimenti “enfatici” che questo Governo ha in mente, si vorrebbe porre in essere una forma di ”precariato dirigenziale” il cui solo risultato sarà quello di far sprofondare la Pubblica Amministrazione ancora di più in un fondo valle remoto.
Inutile dire che i mass-media che hanno saltato con piacere questo ulteriore passo falso sulla dirigenza, non si sono posti, come spesso accade, nessun interrogativo, il primo dei quali consiste nel conoscere se tale iniziativa riguarda solo la cosiddetta “dirigenza privatizzata” ovvero tutta la dirigenza pubblica nazionale (cosa poi significa “privatizzazione” è tutto da spiegare ma una cosa è certa, cioè che il Ministro della Funzione Pubblica pro-tempore il prof. Giannini definì la privatizzazione della dirigenza, in particolare, una vera “zozzeria”), Nessun giornale o televisione ha poi evidenziato e suggerito al Governo che nella riforma della Pubblica Amministrazione non si prevede nessun “disboscamento” legislativo (in Italia esistono oltre 100.000 leggi e atti equiparati) o uno snellimento delle procedure atte a consentire ai dirigenti di operare con efficienza e trasparenza.
Visto che occorre spiegare in termini elementari il problema, si evidenzia che, attualmente, il dirigente, per operare in questa giungla di leggi e leggine, mal scritte e contrastanti nei contenuti, ha solo due strade:
la prima, consiste nell’applicare le numerosissime procedure legislative previste, accumulando ritardi, che spesso danneggiano l’utente: in questo caso il dirigente è definito, da tutti, politici compresi, bene che vada, un “fottuto burocrate”;
la seconda strada, quella invocata dai più, è che il dirigente “salti” le procedure minuziosamente previste dalle leggi, accelerando “motu proprio” la pratica e, in questo caso, nella maggior parte dei casi, è ritenuto, bene che vada, un corrotto o un ingenuo, a seconda delle percezioni o meno di “tangenti” per accelerare l’iter burocratico.
Vorremmo ricordare, a tutti, Governo compreso, che la prima legge sullo snellimento delle procedure e l’autocertificazione, risale al 4 gennaio del 1968 (norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione di firme) la numero 15.
Ma per ostruzionismo politico-sindacale, sono stati attesi olre 30 anni, perché almeno tre Ministri della Funzione Pubblica, (Gaspari, Pomicino e Bassanini) rivisitando la legge del 1968 e aggiornandola, ne facessero il “fiore all’occhiello” della loro volontà di rinnovamento dell’apparato pubblico.
Si soggiunge inoltre che il “precariato della dirigenza”, accentuerà soltanto lo spoil system, già condannato anche dai suoi padri, Bassanini compreso, e da tutte le fazioni politiche, quando si trovano all’opposizione.
Tale nuova situazione (precariato dirigenziale) consentirà una massiccia immissione nei ruoli dirigenziali della Pubblica Amministrazione di portaborse e familiari, così come finora è avvenuto, per fortuna in maniera non “massificata” come si vorrebbe, trasformando in dirigenti non “doc” e addirittura capi di dipartimenti personaggi, già assunti nelle carriere ausiliarie, senza titolo di studio e che spesso non ha partecipato (Presidenza del Consiglio docet!), nemmeno ad un concorso, quello di accesso nelle carriere ausiliarie di origine.
UFFICIO STAMPA DIRSTAT/CONFEDIRSTAT